E la luce divenne legno

Quando ero piccolo conoscevo un castagno dal tronco cavo nel quale si poteva entrare dentro, il fondo era ricoperto da uno strato di foglie secche e scricchiolanti ma risultavano comunque confortevoli e accoglienti una volta eliminati i ricci. Era un rifugio perfetto, anche se un po’ scontato per giocare a nascondino o per sedersi in cerchio insieme agli altri a gambe incrociate come fossimo stati il consiglio dei guerrieri della tribù dei Chirikaua, capeggiati dal grande Geronimo. Su altri alberi era facile arrampicarcisi, mettendo alla prova il proprio coraggio, l’equilibrio e la forza per tirarsi su e arrivare tra gli apici più alti.

Gli alberi erano qualcosa di fantastico su cui giocare e fantasticare, osservare le curve e l’intreccio dei rami rapiva lo sguardo e mi induceva ad una involontaria forma di meditazione, lo sguardo si alzava verso l’alto e gli occhi si bagnavano del verde delle foglie e dell’azzurro degli spicchi di cielo che si intravedevano tra i rami. Certamente si può osservare che non avevo di meglio con cui giocare se non altri bambini e gli alberi ma io credo che sia comunque un bel binomio e da tutto questo vi posso dire che gli alberi sono stati una grande palestra sia per il mio corpo che per la mia anima. Come il bambino che sognava l’infinito, bellissimo racconto di Jean Jhono, salire in alto è il preludio del desiderio di volare, è un esercizio ascetico per il corpo e per l’anima, perché letteralmente ascesi significa esercizio ed elevazione. E arrampicandosi si percorrono le tappe dei tre corpi, quello fisico, quello psichico e quello spirituale. Finché rimani in basso la psiche è l’elemento dominante, solo salendo sei costretto a lasciare spazio all’intuito ed all’istinto attingendo alle altre sfere.

Gli alberi non ti lasciano solo, ti occupano la mente e guidano i tuoi pensieri, ci giocano come fossero una palla, colpendoli con i loro rami, tu passeggi sotto di loro e loro li colpiscono e li fanno volteggiare passandoseli fra se. Così è difficile molto difficile fare pensieri compiuti in un bosco. Per questo ci vuole un solo grande albero è impossibile prendere decisioni sbagliate sotto ad un vecchio albero solitario, non ha più voglia di scherzare e pretende serietà anche da te. I luoghi privi di alberi come le grandi praterie o le montagne brulle, o ancor meglio il mare, svuotano completamente la mente. I pensieri si esauriscono subito, lo spirito si espande e lo spirito non parla. Amo gli spazi aperti quanto amo le foreste. Le distese a perdita d’occhio sono senza tempo, mentre nella foresta si percepisce lo scorrere del tempo, si può toccare il tempo, perché le foreste intrappolano la luce, la usano per erigersi verso di lei e per riempire lo spazio attorno a loro. Oggi lo sappiamo, il tempo, l’energia e lo spazio sono la stessa cosa. Se vi arrampicherete su un albero, lo vivrete e lo sentirete entrerete a far parte di una dimensione che è oltre la nostra dimensione.

Forse avrete avuto l’impressione che ho parlato soltanto di una parte degli alberi, quella che si estende in alto, della chioma e che ho dimenticato di parlare delle radici, quella parte misteriosa dove secondo la mitologia norrena dimora il serpente Níðhöggr il serpente del nero abisso che divora le radici per condurre Yggdrassil (l’albero cosmico) a Ragnaroc , la fine del mondo. Le radici sono la parte nascosta, occulta, che non si vede, ma come i nostri ricordi perduti ed arcani ci ancorano a ciò che siamo, anche se lo abbiamo rimosso o dimenticato, continuano ad attingere alle risorse e a dare stabilità alla nostra esistenza anche se fra loro si annida Níðhöggr. Una parte che possiamo solo immaginare ma proprio per questo ricca di fascino e di significato, una parte che è stata fin dall’inizio parte di questo racconto, perché appunto i ricordi sono le nostre radici.

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